Un recente studio dell’Ingv, pubblicato sulla rivista scientifica Agu Advances, ha identificato una zona più fragile del previsto nella crosta terrestre sotto la caldera dei Campi Flegrei, una delle aree vulcaniche più attive e complesse d’Europa.
Secondo i ricercatori, questo strato debole si trova a una profondità compresa tra i 3 e i 4 chilometri e potrebbe spiegare fenomeni come il sollevamento del suolo e l’attività sismica che, periodicamente, interessano l’area flegrea.
Lo studio, condotto nell’ambito del progetto “Love Cf” finanziato dall’Ingv, nasce da una collaborazione tra l’Ingv, Università di Grenoble Alpes e Università di Bologna, e si basa su analisi approfondite di campioni rocciosi estratti da un pozzo geotermico profondo circa 3 km. I ricercatori hanno utilizzato tecniche avanzate di laboratorio e immagini tridimensionali ad alta risoluzione del sottosuolo fino a 4 km per “osservare” cosa accade sotto i nostri piedi.
“Abbiamo individuato un’importante transizione a circa di 2,5-2,7 km di profondità, dove si osserva un indebolimento degli strati crostali. Al di sotto di questa soglia, la crosta appare più porosa e permeabile del previsto, e quindi meno resistente, favorendo l’accumulo di fluidi magmatici”, spiega Lucia Pappalardo, ricercatrice Ingv e coautrice dello studio. “Questi fluidi, intrappolati, aumentano progressivamente in volume e pressione, innescando deformazioni del suolo e attività sismica“.
Francesco Maccaferri, ricercatore Ingv e co-autore dello studio, aggiunge: “Le simulazioni numeriche hanno mostrato che nelle passate epoche eruttive, numerose piccole intrusioni di magma si sono arrestate proprio in questa zona, alla transizione tra le rocce carbonatiche profonde e i tufi vulcanici più superficiali, contribuendo a renderla via via più debole“.
Questo strato indebolito, precisa Gianmarco Buono, coautore dello studio, “non soltanto funge da trappola per i fluidi magmatici profondi, ma potrebbe condizionare anche una eventuale futura risalita di magma“. Nel caso di piccoli volumi di magma, questi tendono a deviare il proprio percorso e ad arrestarsi in prossimità del contatto tra un substrato rigido, probabilmente calcareo, ed i tufi sovrastanti, raffreddandosi prima di raggiungere la superficie in quello che viene definito un processo di eruzione abortita.
Tuttavia, se l’accumulo di magma avviene più rapidamente, potrebbe non avere il tempo di raffreddarsi e, dopo una fase di stasi a 3-4 km di profondità, riprendere la sua risalita, come osservato nell’ultima eruzione dei Campi Flegrei del 1538, che portò alla formazione del Monte Nuovo. Questo studio, però, non esclude che, in caso di risalita di volumi maggiori di magma dal serbatoio profondo (posto a circa 7-8 km di profondità), il magma possa raggiungere direttamente la superficie, senza attraversare una fase di stasi nello strato crostale indebolito, un meccanismo che potrebbe aver caratterizzato alcune eruzioni di epoche passate.
“Questa ricerca non influenza direttamente le nostre previsioni a breve termine, ma è un tassello fondamentale per comprendere il comportamento del vulcano e migliorare la nostra capacità di monitorarlo“, sottolinea Mauro Antonio Di Vito, direttore dell’Osservatorio Vesuviano, sede di Napoli dell’Ingv. “Solo con una conoscenza sempre più dettagliata del sistema vulcanico e della sua dinamica – aggiunge – possiamo sperare di anticipare segnali critici e ridurre i rischi per le persone“.
La scoperta conferma quanto sia importante continuare a studiare in profondità il sistema dei Campi Flegrei e mantenere alto il livello di attenzione attraverso un monitoraggio continuo e multidisciplinare. L’articolo è stato scelto per essere pubblicizzato su Eos.org, un riconoscimento per l’importante contenuto scientifico della pubblicazione.
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