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Scannasurice, ovvero la sfuggevolezza del Sole

Scannasurice di Enzo Moscato in scena al Teatro Elicantropo di Napoli con la regia di Carlo Cerciello e l’interpretazione di Imma Villa.

Riscritture

Scannasurice è un testo scritto tra il 1980 e il 1982. Anche se meno di altri testi di Enzo Moscato – che hanno impiegato lunghi archi di tempo per potersi dire compiuti, a seguito di rappresentazioni utili «a interrogarli, scucirli, scomporli da capo a piedi, come abiti insoddisfacenti, inadeguati, e poi ricucirli, ricomporli» – Scannasurice ha comunque subito ripensamenti, reimpaginazioni, riscritture più o meno radicali. Dopo le prime rappresentazioni degli anni ’80, che videro interprete lo stesso Moscato e, in un caso, anche la regia di Annibale Ruccello, il testo è stato ripreso pochi anni fa da Carlo Cerciello, nella produzione del Teatro Elicantropo, con l’interpretazione della straordinaria Imma Villa. In questi giorni Scannasurice è di nuovo in scena all’Elicantropo.

«Ferite degli animi»

Il testo appartiene agli early stages della vicenda di scrittura moscatiana; a quella fase in cui, le caratteristiche salienti delle pièces: lingua, eloquio, storie, sottostorie, personaggi, ambienti «le avvicinano a fortiori all’universo significante-antropologico-espressivo-Napoli». Sia pure una Napoli insolita, insondabile e incircoscrivibile nei suoi fondamenti, e tantomeno rappresentabile, dunque, in modo canonico, posta com’è sulla soglia di un vago e «sinistro sfaldamento geocivile», già tendente all’a-spazialità e all’a-storicità che caratterizzerà il successivo Moscato. Lui stesso ci dice che l’anomalo titolo del lavoro, del resto, «la diceva piuttosto lunga sulla nostrana tiritera del “basta ca ce sta ‘o sole, basta cа cе sta ‘о mare”», quella semplicità e ingenuità di gesti che illustri forestieri non avevano mancato di rimarcare, che lo stesso Pasolini lesse come morbido e ostinato rifiuto dei napoletani a far parte della Storia, intendendo, con quest’ultima, la tendenza a farsi divorare dalla «lebbra capitalistica dell’omologazione»:

Io so questo: che i napoletani oggi sono una grande tribù che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg o i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare. Questa tribù ha deciso – in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte – di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la Storia o altrimenti la modernità. […] Finché i veri napoletani ci saranno, ci saranno; quando non ci saranno più, saranno altri (non saranno dei napoletani trasformati). I napoletani hanno deciso di estinguersi, restando fino all’ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili e incorruttibili.

Mettendo in atto un misterico poema della discesa negli Inferi, i bassi, gli ipogei partenopei, attraverso il monologo – a tratti interiore – di una «puttana» cantastorie dei Quartieri, per Moscato Scannasurice si attestava altrove: in un più profondo e critico rifiuto della Napoli diffusamente narrata, all’indomani del tremendo sconquasso del terremoto dеll’80; in una «visione del massacro, dell’eccidio, dello sterminio, non tanto di persone o case, quanto di emozioni, sentimenti». Moscato percepiva queste «ferite degli animi» e non poteva accettare che il teatro non le riflettesse; colmò questo buco narrativo bypassando, o meglio, squarciando il realismo, il naturalismo, «la copia fotostatica del reale» e disegnando un sentiero monologico dell’estraneità, dell’irrealtà, dell’incubo, i cui contorni stranianti si fanno più spigolosi nella scena della benda bianca, trasfigurata da Cerciello nel lugubre affresco della madonna profana e interpretata da una Imma Villa che se stessa trasfigura e strappa a chi l’ascolta l’evocazione dell’angoscia e della nostalgia, tra l’incanto di una storia di magia domestica e la lacrima – gocciola come il «curaro» – di una confessione interiore:

Perché? Voi non ci… Ah, no? / Io invece conosco molti che lo fanno. / Col curaro. Dint’a ‘nu vacillo d’acqua. / Col curaro sciolto dint’a ‘nu vacillo d’acqua. / Che volete? / Siamo troppi, simm’assaie… / non è possibile altro metodo scientifico, / altra più indolore soluzione. / Chesta soluzione, però, dev’essere dosata, calibrata: / a tanto volume d’acqua, tanto volume di curaro… / ma nun s’adda sbaglia’, eh, no! / A si no diventa un’altra cosa, / un espediente estraneo, / validissimo p’ ‘e bestie, p’animale… / ma nun pe nuje / che siamo in troppi, simm’assaie… / Cosa? Qua ‘n’inferno? / Sì… ma… è pure ‘nu sciardino. / Paraviso d’ ‘e stracciune? / All’ingrosso cani, pietre, creature? / Shhh! / Facite male a chiagnere pe’ nuje… / A ciascuno dunque il suo, / Cu’ ‘n’atu ppoco d’acqua e ‘n’atu pizzico ‘e veleno. / Una goccia può servire a diecimila frecce, / mezza goccia, / fatta scendere sapiente, larga, lenta, / nella Pubblica Cisterna / po’ fa’ durmi’ pe’ sempre ‘e chiù nobili quartieri, / Quartieres Espagnoles, / ‘e Capemonte, ‘a Vicaria, ‘a Stella… / Si capisce: nella Pubblica Cisterna, / si qualcuno vo’ pazzia’, / si ‘nu juorno, senza data, vurrà sfoltì’ ‘sti ffile, / alleggerì’ ‘sta cifra… / Cosa? Ce sta ancora chi dice: “Quante songhe?”, “Addò se portano?” / o / “So’ passate”, “Nun cantano”, “Abbandonano?” / No. / Qua gelano. Qua restano indietro. / Gelano e muoiono, qua, tra le rotaie. / Ed è giusto. Giustissimo. Nun ce sta nient’a fa’. / ‘О curaro. ‘О curaro e ‘nu vacilla d’acqua. / Chesta è ‘a soluzione. / Chello ca però inquieta, è la possibilità di errore: / l’oscillazione di un millesimo, / di un millesimo di un millesimo: / la mano che trema nel dosaggio, ‘nu suspiro, un piccolo sussulto… / E allora, eccomi. / Ecco qua ‘stu risultato. Chi so’? / Stong’arinto? / Stong’afora? / Nun moro, no… / ma neppure campo comm’apprimme: / ‘a vista, ‘e mmane, ‘e rrecchíe… / tutte cose se n’è ghiute… / e pure ‘a voce… ancora ‘nu poco… e poi… / sommergerà, affonderà pur’essa. / In un poco di curaro. ‘Nu pizzico sultanto. / Cоmm’è ‘a sputazza aret’ ‘o francobollo. / L’imma capi’. L’imma sape’… / Ca simme troppe. Ca simme tropp’assaie. / Eppure… eppure aret’a chesta benda. / Coccosa ancora se nasconde, ancora s’accamuffa, / ancora vo’ fa’ fessa i pubblici poteri.. / È ‘nа luciarella opaca, ‘nа cateratta lacerata… / ‘na linea… dei puntini… / Coccosa ca se dà e po’ se ne fuje… / Coccosa ca me tira ‘a faccia ‘ncoppa… / ‘lla… / Ca me custringe ancora a cerca’ a isse, / ‘o Sole / ‘o Sole / ‘o Sole / e nun ‘o veco mai.

Qui, nel lamento esistenziale di una vittima della Storia e dell’esistenza stessa, paradossalmente tutto sembra già diluito nell’а-spaziale e nell’a-storico: «viscide paludi su cui nulla si рuò erigere» se non «il gigante argilloso della lingua», allo stesso tempo astratta e materica, corposa, vischiosa e in grado di invocare quelle «ferite degli animi», prima che la vittima abbracci l’unica soluzione per strozzarle, una volta per tutte.

Scannasurice

di Enzo Moscato

con Imma Villa

regia Carlo Cerciello

scene Roberto Crea

costumi Daniela Ciancio

suono Hubert Westkemper

musiche originali Paolo Coletta

luci Cesare Accetta

dal 25 aprile al 5 maggio 2019 al Teatro Elicantropo.

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