venerdì, Marzo 29, 2024
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Maurizio De Giovanni e l’ennesima storia da raccontare

Maurizio De Giovanni ha tenuto tutti con il fiato sospeso. Tutti, nessuno escluso. Dopo la notizia, siamo andati a verificare innanzitutto che fosse vero, che quella remota possibilità di salutare uno dei più importanti simboli di Napoli della storia recente fosse reale. Non è ancora il momento, per fortuna.

Il cuore di Maurizio De Giovanni “batte ancora”, eccome se batte. Voleva mettersi in competizione e, di conseguenza, anche lui si è inventato una storia. Non avendo però fatto i conti con un uomo che ha cambiato la sua vita e quella di milioni di altre persone, con altre storie. Storie tinte di Napoli, di verità, di inebriante follia, di speranza, di ingombrante realtà, d’amore e passione.

Caro Maurizio, la malinconia di cui parli, l’abbiamo avvertita tutta, ma possiamo assicurarti che è durata pochissimo, giusto il tempo di chiudere gli occhi e urlare a gran voce che non era possibile, che non era il momento.

Le tue storie hanno salvato la nostra vita. Hanno salvato Napoli e, come scrivi, probabilmente hanno salvato anche te.

Chissà che questo periodo non rappresenti soltanto nuovi spunti, la possibilità di immaginare nuove storie, che vanno oltre tutto ciò che avresti potuto immaginare. Non ne avevi bisogno, lo sappiamo. Ormai è successo e, fortunatamente, questa storia, ce la racconterai tu. Con l’entusiasmo, la passione e la VITA di sempre.

Ecco qua, tutto a posto. Sei a casa, nel tuo luogo più caro, inondato di affetto, e ci resterai ancora, per tanto, tantissimo tempo.

Bentornato, Maurizio.

Qui il post integrale di Maurizio De Giovanni:

Batte. Batte ancora.
Non che abbia mai smesso, naturalmente. Diciamo che a un certo punto s’è inventato una storia, e mentre me la raccontava si è così tanto immedesimato da diventare un po’ troppo realistico.
Ha detto: immaginiamo che decida di fermarmi. Che questo velo di sudore freddo, questo senso di oppressione che senti in petto, questo dolorino scemo in mezzo alle scapole sia l’inizio di un processo irreversibile.
Che succeda proprio qui, nel luogo che ti è più caro, esattamente dove vorresti essere, all’interno dell’aria che ha appena respirato chi ami di più. Che succeda come hai in fondo sempre desiderato, senza lunghe battaglie, senza perdita di dignità e di autonomia, con una sofferenza limitata nel tempo e tutto sommato discreta, senza agonie. Che succeda adesso, che hai vissuto abbastanza da ridere e piangere, che chi ami non dovrà combattere con le avversità e potrà vivere sereno. Immaginiamo questo, mi ha detto. Che succeda come un fulmine, abbagliante e immediato, alle soglie del declino e della perdita di forza.
Mentre mi raccontava la sua storia, man mano più realistica, e l’auto correva verso l’ospedale e l’infermiera geniale diceva codice rosso avendomi solo guardato in faccia da venti metri, mentre si completava il viaggio verso un luogo di assoluta eccellenza e professionalità, mentre attorno a me ognuno sapeva con esattezza quello che doveva fare, in una coreografia perfetta che era un inno alla competenza, mi chiedevo il perché dell’assenza della paura.
Avvertivo piuttosto una strana malinconia, una specie di assurda nostalgia del futuro. Un senso di cose perdute, un vago scrupolo, come quando ci si addormenta vinti dalla stanchezza avendo ancora qualcosa di importante da fare.
E dietro la fila perfetta dei camici verdi e delle mascherine e dei cappellini, sotto il grande schermo sul quale il Professore studiava i flussi e le barriere da abbattere, ho intravisto un gruppo di spettatori interessati sul cui volto c’era la mia stessa nostalgia triste. Uno aveva gli occhi obliqui, e i lineamenti orientali. Una i capelli grigi e gli lo sguardo attento. Un’altra le labbra strette e gli occhi fieri, e un corpo che non dovrebbe entrare in un reparto di cardiologia. E altri ancora, un brigadiere corpulento, una sciantosa con un velo di barba, un ragazzo con gli occhiali azzurrati e una camicia hawaiana; perfino uno grosso con un cagnone immenso al guinzaglio. Finché dal gruppo si è staccato uno, con un soprabito fuori moda, che si è avvicinato e mi ha sussurrato: no. Non se ne parla. Non ancora. Gli ho fissato gli occhi verdi e mi sono stretto nelle spalle. Non è mia questa storia, gli ho detto. Parla con lui.
In quello stesso momento il Professore ha detto: ecco qua. Tutto a posto.
E lui, il cuore, ha sorriso e ha detto: però era una bella storia. Da tenere a mente. No?
Sì, forse era una bella storia. Forse è quella giusta, che prima o poi ci racconteremo. Ma grazie a quella coreografia d’eccellenza per ora il finale è diverso.
Ed è così diverso che ho potuto leggere le migliaia di messaggi, ai quali mi perdonerete se non rispondo singolarmente rinviando l’abbraccio e le risate e le lacrime agli incontri che avremo di persona, perché la vita riprenderà come prima, perché così deve essere.
Quello che dovevo dirvi oggi è che batte. Batte ancora.
E batte per le stesse cose di prima, una città azzurra e disgraziata, e un popolo allegro e malinconico che mi raccontano storie.
Storie che forse, e dico forse, mi hanno salvato la vita.

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