mercoledì, Aprile 24, 2024
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L’11 settembre: la vetrina del dolore 20 anni dopo

Quando la commemorazione rischia di diventare uno snuff movie.

 

È l’11 settembre, una data tristemente scolpita nel cuore di chiunque ricordi gli avvenimenti di quel tragico giorno. Un 11 settembre dal quale sono passati esattamente venti anni.

Impossibile dimenticare. Coloro che, subito dopo o negli anni a venire, furono intervistati riguardo i fatti di allora, hanno dichiarato di ricordare esattamente cosa stessero facendo nel momento in cui hanno appreso la notizia. Chi andava al lavoro, chi era al telefono, chi guardava semplicemente la tv ed ha visto le prime terribili immagini divulgate dai media americani.

Impossibile dimenticare. Impossibile dimenticare le immagini di migliaia di persone che, pur di sfuggire al fumo e alle fiamme che, in seguito allo schianto degli aerei, si stavano propagando nell’edificio, hanno preferito lanciarsi nel vuoto e precipitare giù. Indelebile l’immagine del Falling Man, uno tra i tanti, che si getta giù dalla Torre Nord del World Trade Center.

L’attentato alle Torri Gemelli del World Trade Center, perpetrato da parte di alcuni membri del gruppo terroristico di al-Qaida, è ad oggi considerato il più grave attentato terroristico dell’età contemporanea.

Di questa buia pagina della storia americana, questo attentato non è il solo. Dei quattro aerei di linea dirottati dai terroristi, due vengono fatti schiantare contro le Torri Nord e Sud del World Trade Center di New York, procurando la morte di 2.753 persone e oltre 6.000 feriti, tra cui molti vigili del fuoco, agenti e altre autorità accorse sul posto; un terzo aereo viene diretto contro il Pentagono, il cuore del comando militare americano in Virginia, causando un parziale crollo dell’edificio e la morte di 189 persone, tra i passeggeri del volo e chi si trovava nella struttura; un quarto, inizialmente diretto verso Washington, precipita in seguito alla coraggiosa rivolta dei 40 passeggeri del volo, poi deceduti dopo lo schianto. Il resoconto finale è di 2.977 vittime, esclusi i 19 dirottatori, e di migliaia di feriti. Per giorni si continua a scavare tra le migliaia di detriti, in cerca dei sopravvissuti e di chi non ce l’ha fatta, ancora avvolti dalla polvere e dal fumo degli incendi sotterranei che continuano a bruciare sotto il World Trade Center. E continua a bruciare anche la rabbia, ancora dopo venti anni.

In seguito ai catastrofici eventi di quel giorno, gli Stati Uniti dichiarano guerra al terrorismo e tanti altri Paesi rafforzano le proprie misure di sicurezza interna. Ma, dopo altre guerre e troppe morti, la minaccia del terrorismo non è ancora estirpata e, più che mai dopo il ritorno dei talebani a Kabul e il ritiro dell’esercito americano dall’Afghanistan, il timore è quello che il terrorismo possa espandersi ulteriormente e con maggior facilità.

Il confine tra commemorazione dei fatti e spettacolarizzazione del dolore

Venti anni, ma il ricordo di ciò che è accaduto resta più vivido che mai. Venti anni, eppure continua a risuonare il boato degli aerei che si schiantano sull’edificio. Venti anni, ma l’eco delle urla delle vittime non si affievolisce. Né dovrebbe farlo, per ricordare, per non dimenticare.

Come allora, anche adesso le immagini che passano in tv, in ricordo dell’11 settembre, colpiscono e lasciano senza fiato. Vi sarà capitato, almeno una volta negli ultimi venti anni, di averle sotto gli occhi. Chi non ha mai visto l’immagine del Falling Man, scattata dal fotografo Richard Drew? Chi non ha mai visionato uno dei filmati girati da coloro che erano vicino ai luoghi dell’impatto al momento dell’esplosione? Sono video tremendi, raccapriccianti, carichi del dolore e delle urla di chi non ha potuto far nulla in quella catastrofe.

Commemorare fatti così atroci, che tracciano un segno indelebile nella storia dell’umanità, è un dovere. Lo dobbiamo alle vittime, per non dimenticarle; lo dobbiamo ai posteri, affinché non vengano commessi gli stessi errori; lo dobbiamo a noi stessi, in modo tale da essere migliori. Ricordare, far sì che tali immagini diventino un monito, affinché fatti simili non avvengano più. Negli anni a venire, immagini simili e catastrofi altrettanto tremende si sono susseguite. Il monito non è servito. Così come non servirà alla causa la spettacolarizzazione di tutto quel dolore.

Occorre ripeterlo. Commemorare e celebrare è un dovere, affinché ciò che è avvenuto non cada nell’oblio, ma viene da chiedersi quanto e in che misura sia necessario che il dolore e il terrore vengano mostrati sino alla saturazione mediatica e, talvolta, anche all’assuefazione di ciò che viene mostrato.

Ricostruire i fatti, commentarli, cercare di capire perché e come. Sono molti i documentari e i servizi giornalistici che si sono posti tali obiettivi. Altri si sono però soffermati su un altro piano degli eventi. Quello del dolore umano. Ed ecco che urla e grida, pianti e preghiere sembrano uscire dallo schermo. E ascoltiamo le voci degli intrappolati e la disperazione che ha attanagliato i loro ultimi attimi di vita e, infine, la consapevolezza della fine. “I’m going to die, isn’t it?” (Sto per morire, non è vero?), sembra essere il macabro ritornello di quei video. Testimonianze preziose, certo, utili a ricostruire i fatti, ma anche intimi momenti di estrema fragilità e disperazione. È giusto proporli e riproporli in quella che rischia di trasformarsi in una martellante esibizione della sofferenza umana o, addirittura, in uno snuff movie? Mostrare sì, ma per documentare e far conoscere la verità dei fatti, non martellare sulla sofferenza delle vittime con l’intento di colpire emotivamente. Perché la verità, anche se si fa fatica ad ammetterlo, è che la tv del dolore fa molti più ascolti della tv dei fatti; però, è anche vero che, se esasperata, rende assuefatti, abituati e ormai indifferenti alle immagini del dolore altrui. Un esempio? Non ci siamo forse già abituati alle immagini di violenza provenienti da Kabul?

Come se non bastasse, ad acuire ancor di più tale sensazione contribuisce la concentrazione, come ogni anno nel giorno della sua commemorazione, di immagini, pensieri, post e video dedicati all’11 settembre. Le bacheche dei social sono sature di tali contenuti, i servizi giornalistici bombardano le tv con immagini e video, le foto sono ovunque. E i fantasmi dell’11 settembre tornano in vita, almeno per un giorno, per poi essere relegati di nuovo nel vuoto, lo stesso vuoto nel quale si sono lanciati 20 anni fa.

Maria Rita Balletta
Maria Rita Balletta
Studentessa di Giornalismo ed Editoria presso l'Università di Roma Tre. Appassionata di Cultura, Ambiente e Sport.
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