venerdì, Maggio 17, 2024
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Suicidio assistito, da Piergiorgio Welby a Mario: dignità negate e il caso Regione Marche

Quindici anni fa la morte di Piergiorgio Welby accendeva la battaglia sul suicidio assistito in Italia. Piergiorgio Welby era affetto da distrofia muscolare, una malattia neuromuscolare degenerativa che causa l’atrofia progressiva della muscolatura scheletrica. Ha vissuto per nove anni attaccato a un respiratore artificiale e una volta uscito dal coma ha sempre chiesto che gli venisse staccata la spina. Da una parte, c’era il suo appello all’autodeterminazione, dall’altra l’opposizione di un pezzo di Italia capitanata dalla Chiesa cattolica, che dopo il decesso si rifiutò di celebrare il suo funerale. Dopo l’ultimo diniego dei giudici alla possibilità di mettere fine volontariamente alla sua sofferenza il 16 dicembre 2006, Welby e chi lo seguiva decisero di mettere in pratica un’azione di disobbedienza civile tra le più forti della storia contemporanea italiana. Nella tarda serata del 20 dicembre l’uomo venne sedato, poi gli staccarono la spina.

Il 20 dicembre 2006 venivano spenti gli interruttori che tenevano in vita Welby. Sono passati 15 anni da quel giorno e se per tutto questo tempo abbiamo sentito parlare così tanto in Italia di eutanasia legale e suicidio assistito è soprattutto per la sua storia, che a catena ha poi influenzato quella di altre persone tenute in vita contro la loro volontà da un vuoto normativo che ancora oggi non è stato riempito.

Ancora oggi, in Italia, si lotta per ottenere il diritto di scegliere per la propria vita nel momento in cui si ha facoltà di scelta. Ma senza una legge a tutela di ciò, la strada è ancora lunga.

Questo lo sa bene Mario, un uomo marchigiano di 43 anni (il nome è di fantasia), il quale, a causa di un incidente stradale, è rimasto paralizzato. Le conseguenze della frattura della colonna vertebrale e della lesione midollare sono irreversibili. “Non riesco a muovere più nessuna parte del mio corpo. Per ogni piccola azione come lavarmi i denti, farmi la barba, mangiare, bere, lavarmi, vestirmi, ho bisogno di qualcun altro. Negli ultimi anni, i dolori sono aumentati, prendo antidolorifici tutti i giorni. Spesso sono costretto a legarmi sul letto per evitare di cadere dal letto a causa delle contrazioni”, queste le sue parole.

Dopo la sentenza 242 del 2019, che dichiara incostituzionale il divieto all’aiuto al suicidio di una persona in determinate condizioni, Mario chiede di poter ricorrere al suicidio assistito. Ma Mario deve ancora aspettare perché chi aveva il dovere di rispondergli – cioè la sua azienda sanitaria locale, l’Asur Marche – all’inizio ha rifiutato perfino di verificare se il suo caso rientrava in quelli previsti dalla Corte costituzionale. Nonostante la sentenza 242 abbia stabilito un diritto (costituzionalmente fondato), l’Asur e il comitato etico si sottraggono da mesi al loro dovere di garantirlo. Questa attesa, che si potrebbe evitare, per Mario significa solo altro dolore. In questi mesi le sue condizioni si sono ulteriormente aggravate e non c’è alcuna ragione valida per cui la sua richiesta non sia stata ancora soddisfatta.

Eppure Regione Marche continua a negare il diritto al suicidio assistito, nonostante l’intervento del ministero della Salute e nonostante il fatto che Mario abbia già ricevuto l’autorizzazione alla pratica dal Comitato etico regionale e dal Tribunale di Ancona.

Grazie alle azioni legali in sua difesa portate avanti dall’Associazione Luca Coscioni, sul caso è intervenuto direttamente il ministero della Salute. Lo ha fatto tramite una nota inviata lo scorso 9 novembre 2021 alla Conferenza delle regioni, in cui esorta i presidenti regionali a dare “concreta attuazione a quanto stabilito dalla Corte costituzionale” perché “responsabilità del Servizio sanitario nazionale”.

La nota, diffusa dall’Associazione, sottolinea come le strutture regionali siano obbligate a dare la possibilità ai “soggetti che versano in situazioni caratterizzate da patologie irreversibili e sofferenze intollerabili” di accedere “nel pieno rispetto di quanto sancito dalla Corte costituzionale, a procedure di suicidio medicalmente assistito”. Inoltre, alle regioni venivano dati due mesi di tempo per adeguarsi alle disposizioni e indicare i Comitati etici competenti ai quali le strutture sanitarie potessero rivolgersi per i percorsi di suicidio assistito. Nonostante questo né la regione né l’Asur hanno agito di conseguenza, sottraendosi sia agli obblighi stabiliti dalla Corte costituzionale, sia a quanto richiesto dal ministero della Salute.

 

 

Maria Rita Balletta
Maria Rita Balletta
Studentessa di Giornalismo ed Editoria presso l'Università di Roma Tre. Appassionata di Cultura, Ambiente e Sport.
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