sabato, Maggio 4, 2024
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‘‘Rapewaffen’’ e la cultura dello stupro: perché è importante parlarne?

In un mondo ideale certi temi dovrebbero essere una parte talmente integrata del nostro sentire comune da annullare, di fatto, l’urgenza di parlarne: al giorno d’oggi risulta necessario dedicare fiumi di parole in tv e sui giornali al fatto che il fuoco bruci e ci si scotti se si prova a toccarlo? No, poiché tale conoscenza è ormai incanalata, assorbita e radicata in noi da rendere la sua discussione una banalità.

Perché non avviene lo stesso con il rispetto verso le donne? Cosa si interpone tra gli ingranaggi della macchina della civiltà impedendo che essa continui il suo operato verso il progresso? Questa incognita, questa ‘x’, è la ragione per cui nell’ambito degli studi di genere si parla di cultura dello stupro ed è altresì la ragione per cui esistono gruppi come Rapewaffen.

Rapewaffen è solo l’ultimo dei migliaia di gruppi presenti su app come Telegram in cui i suoi membri – ‘‘incel’’, ovvero uomini che si sentono rifiutati dalle donne e che per questo si arrogano il diritto di assumere atteggiamenti ostili nei loro confronti – riversano la propria frustrazione verso il genere femminile incitando alla violenza. Una scoperta che da una parte non stupisce – le donne non sono ancora completamente tutelate nella vita reale, figurarsi sul web – ma che dall’altra lascia una sensazione ineffabile, un misto di amarezza e disgusto. Ed è qui che la terminologia ‘cultura dello stupro’ appare chiara in tutta la sua potenza espressiva: come tutte le culture, anche quella dello stupro risale a tempi antichissimi ed è stata tramandata di generazione in generazione con il monito di tenerla sempre viva e difenderne con le unghie e con i denti la legittimità attraverso una retorica intellettualmente disonesta come: ‘‘te la sei cercata, dovevi stare più attenta’’ o ‘‘gli uomini sono cacciatori, sei tu a non doverli provocare vestendoti in un certo modo’’. Come tutte le disonestà intellettuali, anche questa basa tutta la sua essenza sul pilastro della menzogna: non è mai colpa della vittima e soprattutto se un uomo decide di far male a una donna, lo fa perché convinto di poterlo fare in qualità di essere superiore, non perché in quel momento la sua preda ha una scollatura vertiginosa o le gambe scoperte.

La presentazione in cui si incappa appena si entra nel gruppo cerca maldestramente di convincere i nuovi entrati dell’utilità dello stupro elencando motivazioni come: ‘‘lo stupro converte le lesbiche’’, ‘‘lo stupro punisce le stacy’’ (ovvero quelle che nel gergo incel corrispondono a donne molto attraenti che frequentano solo uomini belli come loro. La loro natura selettiva causa rabbia negli incel, che si vedono esclusi dalla competizione perché non abbastanza avvenenti), ‘‘lo stupro è un atto divino’’, ‘‘lo stupro è divino!’’.

Prima che qualcuno se lo chieda: Rapewaffen è stato creato il 30 aprile 2021. Non si tratta di un gruppo risalente ad anni fa né di un fenomeno a sé stante: esso riflette la mentalità di molti che vedono nelle donne degli oggetti su cui mettere le mani e che non accettano un ‘‘no’’ come risposta. Arrivati al 2021, vivendo in un’epoca storica in cui – per fortuna – la sensibilità su certe tematiche è aumentata e di queste si parla – per fortuna – molto di più di quanto non si facesse prima (ma il non parlarne in precedenza non implica che non esistessero già tempo addietro), constatare che certa erba cattiva è ben lontana dal morire fa riflettere molto su quanta strada ancora ci sia da fare e su quanto sia fazioso trincerarsi dietro affermazioni del calibro di: ‘‘le donne ormai hanno gli stessi diritti degli uomini, smettiamola con queste battaglie e concentriamoci sulle cose serie!’’. Se le donne avessero davvero un trattamento uguale alla loro controparte maschile, non vivrebbero la propria esistenza in punta di piedi, in un ‘chi va là’ costante che non le lascia mai andare e che si nutre della prospettiva – familiare e reale – di essere trattate come carne da macello piuttosto che come essere umani soltanto perché certi individui non riescono ad accettare il loro desiderio di essere un ‘io’ attivo nel processo di creazione della propria identità.

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